giovedì 21 aprile 2016

Infiltrazioni di mafie e degrado sociale: la fine del mito emiliano


Lo scioglimento per infiltrazione mafiosa del Comune di Brescello, il Paese in cui Guareschi ambientò le figure di Peppone e Don Camillo, come simboli di un’Italia contadina, ingenua ma appassionata, apparentemente divisa ma profondamente coesa, è un evento simbolicamente devastante, e che va studiato. Anche perché si verifica in una regione storicamente considerata immune da derive di questo genere. Anche perché di dubbi su questo provvedimento ce ne sono pochi: gli indicatori di infiltrazione sono tutti presenti. Le gare di appalto manovrate e destinate sempre ai soliti noti, i cambiamenti sospetti di destinazione d’uso di terreni, una certa ossequiosità della classe dirigente locale nei confronti di esponenti di famiglie notoriamente ndranghetiste, assunzioni sospette in Comune.
Un tema di riflessione molto rilevante per capire il grado di dissoluzione della coesione sociale del Pese è costituito dal livello di infiltrazione mafiosa anche in territori non tradizionalmente vocati, e storicamente considerati pieni di anticorpi. La mafia, infatti, ha un funzionamento diverso da quello di una normale organizzazione criminale. A differenza di quest'ultima, infatti, la mafia ha bisogno di legittimazione, di consenso. E', seppur in una forma degenerata, una organizzazione "politica". Spesso, addirittura, il business illegale è asservito al bisogno di controllare. Tutta la sottocultura mafiosa è costruita attorno ad un bisogno di legittimazione. Ad iniziare dalla nobilitazione mitologica delle origini: il mito dei tre cavalieri nobili Osso, Mastrosso e Carcagnosso, fondatori delle tre organizzazioni mafiose (Cosa Nostra, camorra e ‘Ndrangheta) per aver difeso l’onore di una donzella, che serve per dare nobiltà ad origini invero piuttosto modeste e miserelle, il complesso rituale di iniziazione, pieno di riferimenti mistici e religiosi, mirato a creare nel nuovo adepto la sensazione di entrare in un club nobile ed esclusivo (è peraltro significativo il riferimento centrale a San Michele Arcangelo, comandante in capo delle milizie celesti ,e quindi figura di potere nella simbologia cristiana). Così come è legata ad una esigenza di legittimazione e di ricerca di consenso la produzione e divulgazione di uno “stile di vita” mafioso attraverso la musica folk calabrese (i canti di ‘Ndrangheta) oppure una parte della musica neomelodica napoletana. Questo tratto spiega la sopravvivenza delle organizzazioni mafiose attraverso i secoli: come tutte le organizzazioni di potere, l’esigenza del gruppo prevale su quella dei singoli, e le regole di comportamento costruiscono una società parallela ed altamente disciplinata, nel caos fisiologico del mondo criminale.
Questo tratto di ricerca di consenso deriva dalla storia di queste organizzazioni: nate, come Cosa Nostra, per aiutare i possidenti nel controllo sociale del bracciantato (esercitato sia con la violenza, sia con una forma molto efficace e sottile, ovvero il controllo delle fonti d’acqua comunitarie) o, come la ‘Ndrangheta, nato come fenomeno rurale in aree poco o punto presidiate da poteri pubblici e leggi, o, per finire, come la camorra, che i Borboni utilizzavano come polizia e come tribunale di giustizia nei bassi di Napoli, esse tendono sin da subito a prendere lo spazio lasciato libero dallo Stato, costituendosi come contropotere, sfruttando anche le caratteristiche oppressive che il nuovo potere sabaudo dell’Italia postunitaria esercita sulle popolazioni meridionali. L’incapacità di risolvere la questione meridionale da parte dello Stato non fa che perpetuare questa propensione a formarsi, nell’immaginario collettivo, come contro Stato, spesso anche considerato “più giusto” o più efficace nell’amministrare la giustizia dello Stato stesso.
Naturalmente questa costruzione delle mafie come strutture alla ricerca di potere e legittimazione sociale nasce e si sviluppa nelle contraddizioni storiche tipiche del Mezzogiorno. Ma a partire dagli anni Cinquanta, inizia una lenta progressione al Nord. Dapprima si tratta di organizzare affari mafiosi fra le comunità di emigrati dal Mezzogiorno verso il Settentrione industrializzato del boom economico. Il meccanismo del soggiorno obbligato, pensato originariamente per strappare il mafioso al suo ambiente sociale e al suo territorio, è controproducente. Inviti al soggiorno obbligato, i mafiosi ritrovano fra i paesani emigrati il loro humus. Il Nord presenta inoltre enormi vantaggi in termini di colonizzazione:
a) È ricco; ci sono quindi maggiori spazi di mercato per l’estorsione, il gioco d’azzardo e, successivamente, per il traffico di stupefacenti;
b) E’ in espansione demografica, e quindi edilizia. La tradizionale capacità di penetrazione politica di organizzazioni con un connotato “politico” come le mafie si traduce in enormi spazi per accedere al ciclo dell’edilizia tramite gli appalti pubblici;
c) Il modello abitativo è spesso ideale: molte aree del Nord (si pensi alla Brianza, a molte aree del Veneto o dell’Emilia Romagna) sono “città diffuse”, ovvero reticoli di città piccole e medie, sufficientemente piccole da facilitare il radicamento mafioso da conoscenza diretta e personale, e comunque in grado, nel loro insieme, da andare a costituire una zona densamente abitata, imprenditorializzata e cementificata, cioè un bacino di mercato;
d) Nel sistema giudiziario settentrionale, non esiste spesso una professionalità specifica per combattere i fenomeni mafiosi, che quindi si sviluppano in modo relativamente indisturbato;
e) Nel Nord Est, quando inizia la colonizzazione mafiosa negli anni del boom economico, molte aree sono state strappate dalla miseria solo di recente, ed hanno quindi ancora una piccola criminalità locale, spesso attiva in reati di tipo rurale (abigeato, furti in mercati agricoli) o in fattispecie  di reati urbani “poveri” (usura, piccolo racket di prossimità, gioco d’azzardo). Questa criminalità è spesso ben disposta ad allearsi con le mafie emergenti al Nord, mettendo a loro disposizione la conoscenza del territorio e le proprie reti, al fine di poter fare il salto di qualità criminale. E’ la storia della mala del Brenta, evolutasi da una piccola organizzazione di rubagalline, attiva nell’abigeato o nei piccoli furti di generi alimentari, ad una mafia di alto livello e strutturata in modo sofisticato, grazie alla relazione coltivata fra il suo capo, Felice Maniero, ed i boss mafiosi trasferiti al soggiorno obbligato in Veneto.
Però i motivi dell’infiltrazione mafiosa in territori storicamente immuni non possono spiegare il successo dell’operazione. Né basta richiamare, in verità in modo piuttosto razzista, il radicamento nelle comunità di immigrati. Gli amministratori ed i politici che forniscono occasioni di lavoro e legittimazione ai padrini emigrati a Nord non sono meridionali. E’ gente del posto, così come gli imprenditori che accettano di lavorare con le cosche, certi giornalisti locali troppo compiacenti, o le reti criminali locali pronte a cooperare.
Il motivo è purtroppo più profondo: nel declino del Paese, anche i territori dotati delle più forti tradizioni di cooperazione, solidarietà ed associativismo, come l’Emilia Romagna, si meridionalizzano. Le reti di cooperazione si allentano. La società si sbriciola in monadi. L’individualismo metodologico prevale sul solidarismo. Perché? Perché si diffonde il sentimento di disprezzo o di disillusione per lo Stato e per le istituzioni. La politica ed il sindacato vengono associati al magna magna, della giustizia non si fida più nessuno, la scuola pubblica, abbandonata a sé stessa, senza finanziamenti e con riforme liberiste che ne stravolgono la missione, produce disoccupati oppure analfabeti funzionali. In questa disperazione, nel deserto che avanza, allora si riproducono gli stessi meccanismi di legittimazione che sono alla base del potere mafioso nei suoi territori storici di provenienza. Constatiamo che, nella deriva generale, i vecchi motivi fondanti del meridionalismo storico, che si basavano su uno stato di “eccezionalità” del Sud, sono superati. Ma non perché il Sud ha raggiunto il Nord. Ma perché il Nord è sprofondato a Sud.

lunedì 4 aprile 2016

L'attentato di Calanna: vendetta o riarticolazione territoriale delle aree di influenza delle 'Ndrine?


I due uomini escono sul terrazzino stretto di una modesta casetta di Calanna, microscopica frazione di Reggio Calabria, un pezzo di Calabria rurale incastrato fra la città e l’Aspromonte. Una casetta in pieno paese, anonima e piuttosto dimessa, non la casa opulenta di un boss in fortuna, piuttosto il “buen retiro” di un capobastone in declino. Forse i due uomini volevano prendere una boccata d’aria, con i primi caldi primaverili che rendono profumata e piacevole la sera calabrese. Il silenzio della notte viene rotto da una scarica di colpi di arma da fuoco, e dallo sgommare di una macchina che si allontana. A terra rimangono Domenico Polimeni, 48 anni, con precedenti penali, ma non legati alla ‘Ndrangheta, e Giuseppe Greco, Peppe, 56 anni, capobastone dell’omonima ‘Ndrina che, storicamente, comanda a Calanna. Il primo è morto. Il secondo, raggiunto alla testa, al volto ed a un polmone, miracolosamente ancora vivo, anche se grave. Gli inquirenti sono sicuri che l’obiettivo era quest’ultimo. Il Polimeni è stato sfortunato, si è trovato nel punto sbagliato al momento sbagliato. Forse, è solo una ipotesi, era uno degli ultimi soldati rimasti al servizio del boss in declino.

Figlio di Ciccio, boss storico di Calanna, attivo nel traffico di stupefacenti nella periferia reggina, alleato degli emergenti guidati, nel reggino, dal boss De Stefano durante le prime due guerre di ‘Ndrangheta, morto di recente di morte naturale, Peppe Greco eredita la ‘Ndrina dal padre, e nell’organizzazione complessiva della ‘Ndrangheta arriva al grado di santista, come emerge da una intercettazione. Uno dei gradi più alti dell’organizzazione, un componente della cosiddetta “Società maggiore”, che raggruppa e coordina più “Locali” ed a livello inferiore più ‘Ndrine su un territorio vasto. Una vita di violenza, come qualsiasi esponente della ‘Ndrangheta. A vent’anni, emigra in Francia, e cerca di mettere in piedi, senza successo, un giro di mazzette su locali notturni in Costa Azzurra. Cerca di prendere il controllo di una bisca clandestina gestita da una ‘Ndrina della Locride. Si presenta nel locale con il mitra in mano. Si fa pagare ed esce. Si salva la vita dalla vendetta dei derubati solo grazie all’intercessione del potente boss Paolo De Stefano, amico del padre.  Poco tempo dopo, a Gallico, periferia di Reggio Calabria, un imprenditore, Domenico Falcomatà gli spara, per un litigio legato ad una storia di donne. Il cassiere di un supermercato viene ucciso accidentalmente, Peppe si salva la pelle. Succede al padre nel controllo di Calanna. Nominalmente imprenditore edile, controlla l’amministrazione comunale e si fa assegnare le gare di appalto, usando la violenza per intimidire la popolazione e allontanare le ditte concorrenti. Contrariamente ad altri capibastone, la sua indole particolarmente violenta lo rende poco amato fra i paesani. In una informativa dei carabinieri del 1993, si dice infatti che “trattasi di elemento che in pubblico gode scarsa stima e reputazione, facente parte della presunta omonima cosca mafiosa capeggiata dal proprio padre Francesco nato a Calanna l`1.1.1930, con precedenti penali per favoreggiamento, furto, apertura e sfruttamento abusivo di cava”.

Viene arrestato nell’ambito dell’operazione Meta, dopo aver collezionato un curriculum criminale per omicidio volontario in pregiudizio di un vigile urbano, truffa, furto, associazione per delinquere di tipo mafioso, lesioni personali, porto abusivo di coltello di genere vietato, rimpatrio con foglio di via obbligatorio. Dopo l’arresto, decide di collaborare come pentito, una decisione assolutamente singolare, dato che nella ‘Ndrangheta non si pente quasi mai nessuno. E contribuisce ad inguaiare, per voto di scambio, l’ex consigliere regionale del Pdl Santi Zappalà, che secondo il suo racconto gli avrebbe promesso 30.000 euro in cambio di un pacchetto di 500 voti. Proposta che però sarebbe stata declinata dal Greco, perché giudicata poco redditizia. Ma anche la sua storia di pentito è piena di stranezze. Più volte ricoverato in istituti psichiatrici o in centri per la disintossicazione, essendo dipendente da cocaina,  nel 2015 sparisce, per qualche mese, dal luogo dove veniva tenuto nell’ambito del programma di protezione dei testimoni. E, arrivato alla deposizione processuale ad ottobre scorso, come un personaggio del Padrino, dichiara all’improvviso di non voler più collaborare, e di rinunciare alla protezione, gettando gli inquirenti nella disperazione. Evidentemente per salvare la pelle da possibili vendette.


Torna quindi nella casa paterna, in paese, a scontare ai domiciliari la pena di 4 anni inflittagli per traffico di stupefacenti. Senza più il potere di un tempo. Qualcuno inizia a fargli terra bruciata attorno. A febbraio tentano di uccidere Antonino Princi, considerato da Alessia Candito, di Repubblica, vicino a Greco, in un inseguimento in auto da film poliziesco. E ieri l’attentato. Greco, dopo il pentimento, non era più considerato un intoccabile, evidentemente. Ma vi è anche un'altra ipotesi, e la fa  il procuratore capo della Dda, Federico Cafiero de Raho, collegando l'episodio all'ondata di violenza che ha colpito Reggio Calabria di recente, e che potrebbe essere indicativa dell'esplosione di una possibile guerra di 'Ndrangheta, mirata a ristrutturare i rapporti di potere territoriale dei diversi clan.